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Intervista Giorno della Memoria

In occasione della Giornata della Memoria intervistiamo Alessandra Spizzichino.

Alessandra, benvenuta e grazie di cuore per averci accordato questa intervista. Presentati a chi ancora non ti conosce.
Buongiorno e grazie a voi per avermi dato un’occasione per parlare di un argomento a me molto caro.
Mi chiamo Alessandra Spizzichino, sono sposata da 26 anni con un uomo di religione ebraica, sono mamma di 4 figli e figlia di una famiglia anch’essa di religione ebraica. Sono cresciuta nell’ambiente ebraico non solo per nascita, ma anche per cultura (scolastica) e amicizie.
La mia famiglia d’origine, nonostante fosse attenta a molte tradizioni della religione ebraica, non era estremamente osservante.
Siamo stati noi figli, attraverso la cultura scolastica, a portare l’osservanza delle regole a casa.
L’incontro con mio marito, particolarmente osservante, ha accentuato ancora di più il rispetto della tradizione religiosa in me.

Cosa ha significato, in generale e poi per Alessandra, essere una donna ebrea di religione ebraica?
Essere una donna ebrea nel 2022 significa, prima di tutto, essere una donna.
L’Italia è un paese altamente democratico, molto accogliente e rispettoso delle diversità culturali e religiose. Questo fa sì che io possa sentirmi libera di professare la mia religione (ma so di parlare a nome di tutti gli Ebrei che vivono in Italia).
Essere una donna di religione ebraica mi rende responsabile del tramandare la fede e le tradizioni ebraiche ai miei figli.
La religione ebraica è una “religione d’azione” nel senso che ci sono molte cose da “fare” e rispettare; mi rendo conto che nel 2021 non è semplice, perché i ragazzi hanno molta attenzione al mondo esterno e tante tentazioni.
Ecco perché io non ho mai imposto nulla ai miei figli in maniera “bigotta” ma ho cercato di educare loro al rispetto della tradizione e della fede, solo in nome del rispetto che tutti noi dobbiamo alla nostra famiglia, alle nostre radici, ai sacrifici che i loro nonni e i nostri nonni hanno fatto in nome del loro essere ebrei.
La donna ha anche un ruolo importante nella trasmissione della religione ai figli.
La religione ebraica, a differenza di altre religioni, è una religione matriarcale: è la madre che determina la religione dei figli.
Ma questo non è dato solo dal fatto che una madre ebrea di religione ebraica partorisce un figlio ebreo di religione ebraica, quanto anche dal fatto che la donna è il fulcro del focolare domestico e dell’educazione dei figli.
Nonostante le figure genitoriali siano ormai socialmente equivalenti, nella nostra tradizione, la madre continua ad avere un ruolo molto importante nell’educazione dei figli.

“Per Alessandra” poi, essere donna ebrea di religione ebraica è una nobile responsabilità e aver potuto essere madre è stato un grande onore.
Per me, ma anche in questo caso mi sento di rappresentare le donne della mia generazione, essere responsabile dell’educazione dei miei figli ed avere un ruolo importante per questo nella tradizione ebraica è stato un privilegio.
Guardo con un po’ di preoccupazione alle generazioni future solo perchè la vita è diventata molto più frenetica e il lavoro ci porta anche spesso ad essere fisicamente lontani dalla famiglia. Tutto questo renderà più difficile conciliare il ruolo della donna-madre con quello della donna-lavoratrice… E ciò potrebbe trasformare questo onore in un onere.
Ma ho anche tanta fiducia nell’essere umano e sono speranzosa che le coppie future riescano a trovare i giusti equilibri per poter mandare avanti ruoli e tradizioni.

Cosa significa per Alessandra la parola Olocausto.
Intanto non mi piace la parola Olocausto perchè significa “sacrificio”: la morte di 6 milioni di ebrei (come di rom, omosessuali e disabili … perchè ci tengo a ricordare che all’interno del lager c’erano anche queste altre minoranze “razziali”) non è stato affatto un sacrificio, bensì un eccidio, una strage.
Usare i termini giusti ci aiuta a capire l’entità dei fenomeni.
Per me questa strage significa non aver conosciuto un nonno, non aver conosciuto altri 8 parenti, essere cresciuta con un padre orfano… E tutto questo ha influenzato la mia vita in virtù di quel rispetto che si deve alle origini da cui si proviene.
Rispetto per cosa?
Rispetto per il fatto che le persone che avrei potuto conoscere non ci sono in virtù della loro ebraicità.
Quindi, non rispettare alcune tradizioni o non svolgere determinate azioni (perché ripeto: la religione ebraica si svolge nelle azioni e non solo nelle parole), abbandonare certe tradizioni vuol dire dimenticare da dove si proviene.
E credo che questo sia sbagliato in qualsiasi cultura o religione nel mondo.
Noi siamo quello che siamo perché qualcuno prima di noi ha fatto, ha detto, ha costruito…

Questo terribile eccidio ha avuto un impatto su tutte le famiglie ebree, nessuna esclusa.
Ogni famiglia ha avuto perdite dirette o di persone che conoscevano molto bene.
Ogni famiglia ha perso persone care che sono state brutalmente uccise nei campi di sterminio.
Proprio per questo, la tradizione delle nostre famiglie è intrisa di racconti di guerra.

Mio padre, nato nel 1938 e quindi nel pieno dell’osservanza delle leggi razziali, ci raccontava di essere stato nascosto insieme a mia zia (sua sorella) grazie alla forza della madre rimasta vedova, in quanto mio nonno era stato catturato nella Basilica di San Paolo e portato ad Aushwitz.
I racconti delle famiglie ebraiche sono tutti frutto di ricerche fatte con zelo e amore per provare a mettere insieme i tasselli e ricostruire i percorsi dei nostri cari, presi dai nazisti.
E tutto questo, lo sappiamo fin da bambini.
Per i bambini ebrei ci sono due tipi di racconti: le fiabe della buonanotte e, accanto a queste, i racconti della memoria; è un po’ come dire “Ci sono Biancaneve e Cenerentola ma ricordati anche che ci hanno fatto tutto questo…”.

In che modo questi racconti hanno condizionato la te bambina che è diventata l’adulta che sei oggi?
É veramente difficile trovare un adulto o bambino di religione ebraica che non abbia almeno una volta nella vita fatto un sogno legato ai nazisti che ti stanno rincorrendo.
(…Alessandra si commuove e prende fiato)
É talmente vivo il ricordo di chi ha vissuto e ti racconta che non è solo il racconto di una storia, ma qualcosa che senti ancora forte sulla tua pelle.
Sono racconti così impermeati di dolore razziale che è qualcosa che riguarda anche me che sono nata 30 anni dopo la guerra, o i miei figli.
Talmente forte ciò che ci lega ai nostri cari che, se solitamente si sognano situazioni che riguardano esperienze vissute direttamente, noi riusciamo a sognarle anche se le abbiamo vissute solo attraverso i racconti.
Quando poi ti svegli da un sogno, sai che è solo un sogno… questo, invece, è un incubo realmente accaduto e quando ti svegli non finisce perchè sai che è sulla pelle della tua famiglia.
Mentre parlavi dei racconti dei tuoi nonni, mi sono ricordata dei racconti di guerra dei miei nonni. Sicuramente noi non ce li sentivamo addosso come ferite profonde.
Secondo te questo ha a che fare col fatto che la guerra a cui hanno partecipato i nostri nonni era “un male del mondo” generico, mentre la guerra di cui parlavano i tuoi nonni ha a che fare con uno sterminio legato alla vostra identità che ha poi generato un grandissimo senso di appartenenza?

Io credo che tutte le persone che hanno vissuto la guerra, indipendentemente dal tempo storico o dalla razza di appartenenza, hanno sofferto e avuto paura allo stesso modo.
Il papà di una mia amica (non ebreo), morto lo scorso anno a 92 anni, ogni volta che sentiva parlare qualcuno in tedesco, rabbrividiva.
La guerra ha lasciato a tutti un ricordo di sofferenza e grande dolore.

Per la nostra popolazione, però, l’ultima guerra ha anche significato la caccia agli ebrei.
Credo che la grande differenza fosse che alcuni popoli si sono sentiti, loro malgrado, coinvolti in un contesto guerra, noi invece eravamo le prede di quel contesto guerra.
Ancora una volta mi sento di ricordare che non eravamo le uniche prede: assieme a noi c’erano altre minoranze come i rom, gli omosessuali, i disabili.
A livello numerico ovviamente i 6 milioni di morti ebrei hanno però fatto la differenza.
Non possiamo non tener conto che se una persona dichiarava di essere italiana, andava avanti; se, invece, dichiaravi di essere ebreo, la tua vita finiva lì. Senza appelli.
E questo non può essere dimenticato.

Accedendo a quei racconti di cui parli, c’è una storia che ti va di condividere con noi?
Vi racconto la storia della deportazione di mio nonno.
Mio padre mi raccontava che mio nonno, assieme ad altri 8 parenti, fu accolto e nascosto nella Basilica di San Paolo.
Fu catturato nella notte tra il 3 e il 4 febbraio del 1944 perchè nella Basilica riuscirono ad entrare i nazisti, accompagnati dai fascisti che, in realtà, stavano cercando renitenti alla leva.
Non si aspettavano di trovare degli ebrei sotto gli abiti monacali.
Lo scoprirono perchè li fecero spogliare e videro le loro circoncisioni.
Li picchiarono e li catturarono, li condussero in carcere in attesa di essere messi sui treni per i campi di sterminio.
Da quel momento in poi nessuno seppe più dove fosse stato portato mio nonno.

Anni dopo la guerra fu ritrovata, e consegnata a mio padre, una cartolina che mio nonno era riuscito a scrivere e lanciare dal treno (… Alessandra piange e si ferma per qualche istante)… in cui si appellava ad un prete che li aveva aiutati fino a quel momento affinché si occupasse della moglie e dei figli.
Nonostante nel ’44 non fosse ancora ben chiara la destinazione degli uomini che salivano su quei treni (alcuni pensavano che andassero nei campi per lavori forzati), si vociferava già di persone scomparse e mai più tornate da quei luoghi.
E mio nonno, scrivendo quella cartolina, evidentemente dentro di sè sapeva già che non sarebbe più tornato.
Abbiamo perso completamente le tracce di mio nonno. Non abbiamo date di morte.
Sappiamo solo, da più testimonianze accertate, che è arrivato a Mauthausen e poi ad Aushwitz.
Mia nonna ci racconta che qualche mese dopo il termine della guerra, un sopravvissuto bussò alla porta di casa dicendo che voleva salutare mio nonno (chiamandolo per nome e cognome). Mia nonna gli spiegò che il marito non era ritornato e quest’uomo rimase incredulo.. dicendo che non era possibile che non fosse a casa, in quanto lo aveva visto andar via quando avevano liberato il campo.
Ma mio nonno non è mai più tornato.
Non sappiamo se sia morto perchè gli è stato dato da mangiare e lui (come tanti) non era più abituato, se sia stato preso e portato nella marcia della morte dai Russi, se il sopravvissuto pensava di aver visto mio nonno ma invece non era lui…

Tornando al ruolo delle donne.. come ha fatto tua nonna a tirar su due figli negli anni ’50 senza un marito?
Eh… (Alessandra sospira)
Mia nonna era una donna molto dura e un po’ distaccata. Ma non poteva essere diversamente: la vita le aveva tolto un marito all’età di 27 anni e l’aveva lasciata con due figli di cui il primo di soli 5 anni.
Pensiamo anche che essere una vedova così giovane nel dopo guerra non deve essere stato facile.
Fortunatamente i genitori di mio nonno l’hanno aiutata; ma lei ha sempre lavorato e con il suo lavoro ha cresciuto i suoi figli.
Non si è mai voluta risposare.

Esistono vari modi in cui si affronta e si supera un dolore. C’è chi ci si àncora fino a far incancrenire il proprio cuore e chi invece lo metabolizza e lo rende il proprio punto di forza.
Cosa vi ha insegnato il vostro dolore?

Ci ha insegnato ad essere una grande famiglia.
Chi appartiene al popolo ebraico prova un grande senso di appartenenza.
É una famiglia macroscopica per chi ci vede da fuori, microscopica per noi che ci stiamo dentro.
In che senso?
Ti racconto un episodio per farti capire.
Quando io e mio marito siamo andati in viaggio di nozze in Messico, non sapevamo bene dove trovare una sinagoga..
Non esistevano social e telefonini.
Così abbiamo aperto l’elenco telefonico, abbiamo cercato un cognome ebraico perchè sapevamo che quella famiglia ci avrebbe accolti come figli dandoci tutte le informazioni di cui avevamo bisogno. E così fu.
É come avere una immensa rete di protezione sempre attiva.
E non importa quanto tu sia potente o chi conosca… il solo fatto di appartenere al popolo ebraico ti rende parte di questa grande famiglia.
Io credo che il popolo ebraico non si sia sentito mai solo. Neanche nei campi di sterminio.
Credo si siano sentiti soli soltanto al momento delle deportazioni.
Noi siamo riusciti, anche all’inferno, a sentirci uniti e parte di una stessa famiglia, pur essendo circondati dall’orrore.
Ovviamente non è stato per tutti così, ma per la maggior parte.
Credo che il nostro forte senso di appartenenza sia nato proprio lì.
E lo Stato di Israele ci aiuta ad alimentarlo ogni giorno.

Cara Alessandra, siamo in chiusura e vogliamo concludere con la domanda per la quale abbiamo scelto proprio te per questa intervista. Sei donna, sei donna ebrea e di religione ebraica, sei madre di quattro figli e molto attenta alla cultura e crescita dei ragazzi.
Secondo te, è ancora importante raccontare la Shoah nelle scuole di tutto il mondo?

Intanto bisogna farlo e farlo attraverso un processo che non può nascere e morire il 27 gennaio, ma deve durare per gli altri 364 giorni.
Questo vale per la Shoah ma anche per le altre 364 giornate Mondiali come quella sulle discriminazioni di genere, sulla violenza sulle donne e così via.
Il nostro dolore ci ha insegnato a non dimenticare.
L’odio per gli Ebrei si è smorzato perchè la nostra voce si è fatta più forte; ma il cancro della discriminazione, in generale, è purtroppo sempre più presente nella nostra società.
É importante, quindi, ricordare per evitare che riaccadano barbarie accadute in passato.
É importante, però, farlo nel modo giusto: non tutto va detto ad ogni costo.
Noi non abbiamo la frenesia della condivisione del dolore fine a se stessa, se questa non è d’insegnamento per qualcuno.
Mi spiego: nel museo della Shoah non possono entrare i ragazzi al di sotto dei 12 anni. Perchè è importante che essi siano maturi abbastanza per coglierne non soltanto il dolore, ma anche l’insegnamento. I bambini vanno protetti sempre.
Quindi non è importante parlarne ad ogni costo, ma farlo nel modo giusto e, soprattutto, al momento giusto.
I racconti sono talmente tanto crudeli da essere ai confini della realtà.. quindi ad ascoltare deve esserci un ragazzo maturo a tal punto da accettare anche le brutture del mondo.

Ricordare significa lanciare un messaggio: Non dimenticateci!
E questo vale per gli ebrei, per gli afghani, per gli omosessuali .. e per tutti coloro i quali sono stati vittime di discriminazione.

Conoscere significa avere degli esempi che ci aiutano a crescere scegliendo chi vogliamo essere,
sapendo da dove veniamo.

Alessandra, grazie.